Circa una decina d'anni fa comparve a Roma un'entità che mescolava nella sua musica molto di ciò che all'epoca stava nascendo dalla cultura afroamericana. Suoni tribali, voci di strada, beat partoriti dalla mente di chi aveva vissuto nelle grandi metropoli degli Stati Uniti. Una maschera, un totem, il cui nome era Khalab. Nella notte com'era apparso improvvisamente scomparve, avvolto da un alone di mistero impenetrabile. Passarono giorni, mesi, anni prima che quella entità si manifestasse nuovamente. Questa volta il messaggio venne diffuso attraverso un disco, ‘Eunuto’, per Black Acre Records, segno del ritorno di questa figura enigmatica, seguito dalla consacrazione di ‘Khalab & Baba’ prodotto con Baba Sissoko, polistrumentista maliano che più di ogni altro aveva compreso il ritmo di Khalab. Il suono che ne nacque ipnotizzò fan e critica al punto che anche Gilles Peterson ne riconobbe l'indiscutibile valore. Era chiaro che nel corso di quelli anni Khalab aveva preso le sue influenze, le aveva raffinate e contaminate con le nuove suggestioni che aveva percepito nella sua spasmodica ricerca. Khalab sembrava non essere più un mistero, eppure scomparve di nuovo, immergendosi stavolta negli archivi dei musicologi che avevano testimoniato la storia della musica africana. Un'eredità da cui Khalab non voleva rimanere escluso, un patrimonio di strumenti e suoni necessario per scoprire cosa ne sarebbe stato del futuro. Fu così che nel 2018 Khalab riemerse dagli archivi portando con sé 'Black Noise 2084', testimonianza e manifesto della sua ricerca incessante dell'afrofuturismo più autentico, progetto in cui coinvolse Shabaka Huntchings, Moses Boyd, Tamar Osborn, Gabin Dabyré, Teenesha, Tommaso Cappellato and Prince Buju.